DANZARE IL CORPO-COMUNE

Riflessioni attorno a L’inseparabile

di Andrea Corvisieri

L’Inseparabile nontantoprecisi Palazzo delle Esposizioni, Roma

“L’umano non ha volto, non più di quanto il comune non abbia verbo per dirsi; ha figure, come si direbbe parlando di una danza.” (Deligny F., 1989, p. 154)

L’artista c’ha l’abito dell’arte ha man che trema” (Dante, Paradiso XIII, cit. in Agamben G., 2014a, p. 48): Nontantoprecisi è questo tremito esibito sulla scena. L’imprecisione di corpi inseparabili nella loro composizione. L’imprecisione di una voce che non può che essere un tenue balbettio. Assistere all’emergere scenico dei nontantoprecisi significa essere chiamati a partecipare a questo sussulto condiviso: si è di fronte all’impossibile possibilità del darsi di una potenza in un corpo collettivo. Il senso è allo stato nascente, non precede ne segue il comporsi dei corpi sulla scena, ma è una deriva della sensazione, un confuso vibrare di materia incandescente. Il destituirsi della presenza nel riquadro scenico inaugura il presupposto di un nuovo modo di intendere la prassi comune. Non c’è rappresentazione, non c’è testo. L’atto di creazione non procede da una volontà, da un’intenzione, ma si costituisce come intensità e potenza che si fa largo nel tremolio della materia viva. La creazione è la mano tremante, il corpo impreciso che si situa nello spazio, sulla soglia di uno sfondo inappropriabile. Il corpo in composizione dei nontantoprecisi sfida la legge dello spazio, del tempo, della parola. Ambisce a farsi corpo impossibile, inseparabile, a dire di quell’evento di cui nulla si può dire: negli interstizi del reale, tra le gabbie della rappresentazione, si fa largo un resto, si tenta uno spazio-tempo comune, eco e risonanza della moltitudine in movimento. Rimane la difficoltà del linguaggio nel tradurre – tradendo – questo tentare che attenta all’abito della quotidianità. Tuttavia restituire queste piccole briciole di quell’evento fa parte della sfida lanciata dal richiamo della scena.

Lo sfondo è quello del Palazzo delle Esposizioni, il contesto è la ricostruzione di un teatro anatomico di fine settecento. Al centro della scena una sedia vuota. Sfondo e contesto seppur relativi – i nontantoprecisi agiscono allo stesso modo strade e piazze che teatri, musei e cinema – in questo caso già suggerisce le possibilità di un accadere. Agire un teatro anatomico significa sostare sulla scena di un “delitto”: il teatro anatomico è, infatti, luogo aurorale ed emblematico in cui si inscrive la concezione moderna della corporeità. La psicopatologia moderna trova nel teatro anatomico la sua scena primaria. Ad una corporeità misteriosa e ambigua – in una parola inappropriabile – subentra il corpo significante del sapere scientifico moderno. Qualsiasi segreto, ombra o opacità della materia corporea viene sviscerata, sezionata ed illuminata in maniera appropriante e definitiva. L’occhio interrogante del dispositivo medico-scientifico proietta sul corpo nomi e funzioni, lo scrive e lo disegna con la pretesa di esaurirlo nella sua sfera funzionale. Siamo nell’alveo esiziale del tentativo di cattura del corpo: luogo della recisione, della frattura, della nominazione dettagliata di funzioni e organi. Il potere della rappresentazione svela qui il suo ruolo fondativo del sapere moderno. Dal teatro anatomico-patologico al teatro edipico-psicoanalitico il passaggio è breve: il corpo rimane all’interno della sfera del sintomo – luogo della significazione.

Ritrovarsi ad agire sulla scena primaria e fondativa del dispositivo di cattura del corpo moderno ha, è chiaro, una potenza enorme. Implica la riapertura di una soglia, di una ferita. Infatti il teatro anatomico, questo luogo liminale al limite dell’osceno, ha il privilegio di far emergere quella soglia, quell’interstizio situato tra dispositivi di cattura e linee di fuga, tra corpo improprio/inapproriabile e corpo proprio, tra il nome e la cosa. Una soglia che sfida il pensiero e la prassi comune dei corpi. Ed è proprio su questa soglia che, nel silenzio della platea, si fa largo qualcosa. Corpus, corpi. I nontantoprecisi, lentamente, vibrando di un tremito esitante, si dispongono sulla scena. Inizia subito a delinearsi una partitura opaca – partizione di corpi – una musica che echeggia tra le membra in movimento. I corpi accadono, si scrutano, tentano lo sguardo – crudele tentazione – poi sembrano ritrarsi, sottrarsi al tatto, rifuggendo il voyeurismo reciproco. In questo esitare velano e dis-velano un qualcosa: una presenza viene evocata e appare una figura seduta al centro della scena, apparentemente immobile. Aletheia. Qualcosa è accaduto, qualcosa si è disvelata ri-velandosi: una verità? Ha le sembianze di un individuo. La sua evocazione innesca un sommovimento dei corpi che gli si fanno intorno. I movimenti si caricano di un’irrequietezza reciproca, una tensione nell’aria evoca uno spazio di indistinzione che inizia a germinare. Qualcosa come “un’anatomia delle configurazioni, dei volumi, forse si dovrebbe dire degli stati-dicorpo” si delinea sulla scena, sostituendosi all’abituale “anatomia filosoficomedica della dissezione, [del]lo smembramento dialettico degli organi e delle funzioni” (Nancy J.-L., 2014, p. 70) del teatro anatomico che fa da sfondo all’accadere dei corpi. Un groviglio di mani, braccia, gambe, teste: farsi e disfarsi di un corpo che si costituisce di una moltitudine di corpi altri. Spinoza/Deleuze. L’individuo, il corpo, è una composizione infinita di altri corpi. Il corpo seduto al centro e la moltitudine delle sue membra che gli si fanno intorno, cantandolo, componendolo. Moltitudine vibrante di piedi, glutei, gomiti, spalle; tremolio scaturito da un’apparente immobilità. Un corpo singolare e plurale al tempo stesso, partitura di una miriade di corpi asignificanti, anonimi, che tentano di prendere voce, di dirsi in un eco reciproco. La voce si limita al balbettio, all’intonazione gratuita, che si insinua tra la viscere di quell’individuo-moltitudine in formazione. “L’immobilità è un atto e, all’occorrenza, appassionato” (Decroux E., 2018, p. 105): l’individuo seduto immobile è in realtà crocevia di un attraversamento di potenze, di intensità, voci, echi, tremiti, gomiti, braccia, gambe. Il corpo sosta tra gli sguardi esitanti dei corpi altri che lo danzano tuttintorno: non ci sono organi, gerarchie, funzioni. Sulla scena sembra prendere forma qualcosa che potrebbe dirsi corpo-comune, individuo-moltitudine. Le membra, i corpi, che vanno via via componendo la figura, sono singolarità improprie e inappropriabili che tuttavia innescano il movimento di un comune plurale (o movimento-comune). Un corpo che si abbandona alla contingenza, alla necessità dei corpi che lo muovono, lo formano, lo istituiscono destituendolo. L’inseparabilità tra corpo e corpo, tra singolarità e pluralità, non si risolve in un’omogeneità precisa e direzionata ma apre piuttosto alla pura intensità di un movimento tremante e teso all’ascolto risonante. Non c’è spontaneismo nel farsi corpo dei nontantoprecisi: l’agire è un agire a contatto con la gravità di corpi tattili, un agire innescato dalla e nella necessità immanente e areale del caos circostante. Non c’è pre-scrizione così come non c’è volontà emergente di un soggetto: l’escrizione dei corpi fuoriesce da una risonanza reciproca, un germinale farsi-comune. La figura al centro della scena assume le sembianze di un burattino cullato dalle potenze del divenire: “si danza, è danzato da un altro” (Nancy J.-L., 2007, p. 50). Un corpo a corpo incandescente, un abbandono all’eco del corpo estraneo. Movimenti sconnessi, disarticolati, quasi animali. Ecco accadere lo stato nascente del senso nelle viscere di un corpo deflagrante. Il tremolio del corpo immobile è ora danza esplosiva. La moltitudine canta il corpo-comune – ecco che cosa può un corpo (?).

L’evento si ri-vela, così come si è disvelato. Rimane solo una sagoma anonima e asignificante lì dove sedeva il corpo-comune. Silenzio. L’individuo-moltitudine, ormai ri-composto, rientra dal lato della scena. L’osceno, letteralmente, si fa spazio nel centro della scena. In piedi di fronte alla platea. Parla. “Mi sono svegliato”. Silenzio. “Sono andato al bar”. Silenzio. “Ho preso un caffè”. Silenzio. Un susseguirsi di frasi che sembrano suggerire la ricomposizione di un “proprio”, immagini di vita quotidiana, azioni rivolte ad un fine. Il soggetto si presenta nel suo habitus: ripetizione significante di un codice pre-scritto. Ma è nel silenzio sempre più ampio tra un dire e l’altro che sembra affacciarsi un’indecisione. Un tremolio del corpo, un sussulto della memoria, un prurito nelle viscere. E’ la risonanza della moltitudine dei corpi che ancora echeggia muta tra gli interstizi-soglie dell’abito quotidiano. Il soggetto si volta e, destituendo con un gesto inoperoso la sagoma anonima finora seduta al suo posto, esce di scena. Crisi della presenza: rivelazione, scuotimento, tremito. Il silenzio risuona assordante in un tempo interminabile, quasi eterno, prima di vanificarsi nell’applauso del pubblico. Qualcosa è accaduto. Difficile dire più di questo. L’accadere dell’evento implica una crisi del linguaggio, un’insufficienza del dire. Queste parole-briciole non possono che essere un accenno all’evento. Con tutto l’ingombrante peso di significato di cui si fanno carico non possono che, letteralmente, fare cenno – indicare –  a quella soglia indicibile e asignificante emersa tra le pieghe della moltitudine corporea. Stare su questa soglia ha tuttavia la forza di rimettere in questione alcuni dei nodi cruciali che istituiscono la vita e l’agire umano. Questa è, forse, la sfida di essere nontantoprecisi. Una sfida al presente, alla contemporaneità. Una sfida che si costituisce come atto di “terrorismo poetico” nell’attentare alla tranquillità anestetizzata del vivere quotidiano. Una sfida che è, quindi, la prassi di un urto. Un disorientamento, uno spaesamento che, tuttavia, non rimane muto e stordito, ma adombra, pur nella propria inoperosità, al costituirsi di una forma di vita. Nel tremolio del farsi corpo collettivo, composizione instabile di infiniti corpi-altri in mutamento, balena la possibilità abbacinante di un’orizzonte comune. Essere nontantoprecisi è questo aprirsi alla complessità del divenire, sperimentando la soglia di un comune sempre di là da venire e cercando tra le moltitudini viventi nuovi spazi di risonanza.

Fin qui giunge l’eco dell’accadere scenico dei nontantoprecisi. Un accadere che è solamente la tappa di un cammino in continua elaborazione. Un cammino del quale ancora molto si potrebbe dire in merito al senso della sperimentazione teatrale e artistica, all’esigenza etica e politica incarnata dal grumo di corpi sulla scena. Tuttavia troppo, forse, si è già detto. E troppo si è già tradito, vivisezionando una semiotica alla quale non può che sfuggire quell’indicibile spazio-tempo comune balenato sulla scena. Come dice Deligny “il comune non ha verbo” e perciò non si può dire: può solo essere evocato e costruito tra le svolte dell’agire collettivo. Di queste parole finora dette, iscritte, non rimane che un profumo patetico derivante dal tentativo impossibile di farsi carico del pathos indicibile dell’evento. Il pensiero tentenna, ricade nella trappola significante-significato, circolo vizioso della ripetizione. Il pathos della lingua mantica dei corpi in mutamento si disperde. Rimane qualcosa come un resto. Un resto sul quale, forse, poter costruire il futuro dei nostri corpi.

BIBLIOGRAFIA

Agamben G., Il fuoco e il racconto, Nottetempo, Milano, 2014a

Agamben G., L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza, 2014b

Barba E., La canoa di carta, Il Mulino, Bologna, 1993

Decroux E., Parole sul mimo, Dino Audino, Roma, 2018

Deleuze G., Che cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Ombre corte, Verona, 2013

Deleuze G.; Guattari F., Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma, 2010

Deligny F., I bambini I loro atti I loro gesti. Esistono bambini mutacici, autistici, afasici?, Spirali, Milano, 1989

Nancy J.-L., Corpo teatro, Cronopio, Napoli, 2011

Nancy J.-L., Corpus, Cronopio, Napoli, 2014

Nancy J.-L., Narrazioni del fervore. Il desiderio, il sapere, il fuoco, Moretti&Vitali, Bergamo, 2007

Spinoza B., Etica. Dimostrata con Metodo Geometrico, Editori Riuniti, Roma, 2007

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